“Glenrio era affollata come una bettola a mezzogiorno. Dal 1910 al 1934 questa cittadina di frontiera ha prosperato ed ha perfino ospitato un quotidiano, il “Glenrio Tribune”. Nel 1920 Glenrio aveva un hotel, una ferramenta, ed un ufficio del catasto. Nel 40 John Ford ci ha anche girato alcune scene di “Furore”. I tempi di gloria se ne sono ormai andati da tempo. Oggi ci vivono più cani che persone. La piccola cittadina a cavallo tra due stati si è evoluta in un’oasi di cespugli e di roadrunners a caccia di rettili per la cena. Ciononostante, i viaggiatori si fermano ancora e le rendono omaggio.” Michael Wallis, scrittore
Glenrio, ovvero quel che resta di un tempo ormai lontano.
Quelle vecchie, consumate costruzioni ricordano ancora il tempo in cui questa piccola cittadina a cavallo tra due stati era fiorente.
Glenrio ci racconta degli Okies e dei loro viaggi della speranza verso la California.
Ci racconta di un tempo nel quale viaggiare era un’avventura, per via delle difficoltà nel percorrere la vecchia highway con delle automobili prive dei moderni confort ed affidabilità, ma era al tempo stesso un piacere.
Glenrio è stata una piccola cittadina al confine tra Texas e New Mexico, tra le contee di Deaf Smith e Quay, più o meno al centro tra quelle che oggi sono due tappe fondamentali di un viaggio lungo la Route 66: Amarillo in Texas e Tucumcari in New Mexico.
Come molte comunità lungo la vecchia highway, anche Glenrio nacque come accampamento durante la realizzazione di una ferrovia.
In questo caso si trattava della ferrovia che avrebbe collegato le cittadine di Amarillo e Tucumcari per poi proseguire fino alla costa del Pacifico.
Le prime tracce di questa comunità si hanno nel 1903, anno in cui questo tratto di ferrovia iniziò ad essere costruito dalla Rock Island & Pacific Railroad, un tratto che venne completato intorno al 1910.
Nel 1907 un colonnello dell’esercito americano fu incaricato di occuparsi della promozione di questo nuovo insediamento al quale in prima istanza assegnò il nome di Rock Island, in onore della compagnia ferroviaria impegnata nella realizzazione dell’importante arteria di collegamento.
Nei primi anni del 1900 il piccolo insediamento, oltre che dalla ferrovia, era attraversato dalla Ozark Trail Road, una delle prime strade di collegamento east/west costruite nella regione del Panhandle ed una delle principali strade storiche che in seguito hanno ceduto il percorso alla US Highway 66.
Nel 1910, in concomitanza con l’inaugurazione della stazione ferroviaria, la piccola comunità cambiò nome diventando Glenrio, dall’unione di due parole, la scozzese Glen (valle, canale) e la spagnola di Rio (fiume) ed iniziò a conoscere un discreto incremento della popolazione residente che passò a circa un centinaio di unità.
Negli anni 20 a Glenrio c’era un hotel, una ferramenta, un ufficio del catasto, diversi negozi di alimentari, service stations e diners.
Aveva anche un giornale, il Rock Island Tribune, diventato in seguito Glenrio Tribune, che fu operativo tra il 1910 ed il 1934.
Era quindi una cittadina molto attiva e dal business fiorente.
La natura di queste attività, prevalentemente legata alla ferrovia, si trasformò ben presto in supporto ai viaggiatori che percorrevano la strada che attraversava la piccola comunità.
Nel 1926, infatti, con l’inclusione della Ozark Trail Road nel percorso della nuova Highway 66, Glenrio partecipò al boom di questo nuovo genere di attività.
Durante gli anni ’30, la nuova Route 66, che in corrispondenza di Glenrio era a due corsie, fu asfaltata.
In quegli anni non c’erano bar sul lato texano della comunità, poiché la contea di Deaf Smith era una cosiddetta “Dry county”, dove era quindi vietata la vendita di alcoolici, mentre nessuna stazione di servizio era presente sul lato del New Mexico a causa delle elevate tasse sulla benzina applicate dalla Land of the Enchantment.
Tra i nuclei familiari che hanno segnato la storia di Glenrio si ricordano la famiglia Ferguson (proprietaria di alcune stazioni di servizio e dello storico State Line Bar), la Ehresman e la Brownlee.
Di queste ultime due restano dei richiami agli anni d’oro di Glenrio tutt’ora molto popolari tra i viaggiatori della vecchia highway.
Omer Ehresman a metà degli anni 50 costruì lo State Line Café and Gas Station e il Texas Longhorn Motel, il motel con la famosa insegna “The last stop in Texas”, lato Texas per chi stava lasciando il Lone Star State, e “The first stop in Texas”, lato New Mexico, per chi entrava nello stato dalla stella solitaria.
Texas Longhorn Motel nel 2019Una cartolina del Texas Longhorn Motel
Alla famiglia Brownlee si deve invece la proprietà, oltre che di diverse gas stations, del “Brownlee Diner”, conosciuto anche come “Little Juarez Cafè”, una costruzione realizzata agli inizi degli anni 50, visibile anche nel film di animazione “Cars” del 2006, con l’insegna “Glenrio Motel”.
Brownlee Diner (o Little Juarez cafè)Il Glenrio Motel di “Cars”
Negli anni 40 alcune delle scene del film “Furore” (“The grapes of wrath”) di John Ford, tratto dall’omonimo libro di John Steinbeck, furono girate a Glenrio.
Glenrio era davvero molto trafficata tra gli anni 50 e 60; coloro che in quegli anni vi lavoravano ricordano le colonne di automobili in coda per fare benzina e le file presso i cafes ed i diners.
Le attività commerciali erano impegnate tutto il giorno per dare supporto ai viaggiatori.
Negli anni 60 la comunità di Glenrio poteva contare su 2 motels, 3 diners ed almeno 7 stazioni di servizio.
Lo sviluppo economico ed il benessere di Glenrio terminarono nel 1975, anno in cui in quella zona venne inaugurata la Interstate 40, che di fatto ha azzerato il business della piccola comunità.
Le attività vennero abbandonate o spostate in prossimità della nuova arteria di collegamento interstatale, come accadde alla famiglia Ehresman, proprietaria del Texas Longhorn Motel, che spostò la propria attività aprendo un motel ad Endee nelle vicinanze della I40.
Glenrio cadde quindi in rovina, quasi tutti i residenti l’abbandonarono e le costruzioni un tempo fulcro economico della comunità, cominciarono ad essere erose dal tempo e dai vandali.
Glenrio oggi è una ghost town, probabilmente la più popolare ed amata dai viaggiatori della Route 66.
Esperienza personale
Ho attraversato Glenrio 5 volte durante i miei viaggi lungo la Route 66 e per 3 volte ho percorso il tratto sterrato che la collega a San Jon in New Mexico.
Nutro un particolare affetto per questa cittadina.
Guidando da est ci si arriva percorrendo un breve tratto di I40 da Adrian fino ad un’uscita il cui nome è altrettanto iconico quanto la cittadina stessa, un nome che secondo me riassume perfettamente quello che il viaggiatore andrà ad incontrare lasciando l’Interstate: la Exit 0.
Exit 0Exit 0
Zero, come quello che resta della prosperità di questo luogo, zero come i segnali di vita che si percepiscono quando l’attraversi, ad eccezione dei rattlesnakes e di qualche cane.
Uno zero che tuttavia si trasforma in 1000, 100.000 un milione, quando a parlare sono le emozioni che Glenrio, nonostante tutto, riesce ancora a trasmettere a chi, come me, ama la Route 66 e la sua storia.
Glenrio la riassume perfettamente, anche se a differenza di altre comunità lungo la vecchia highway, non si è mai più rialzata dopo tutti questi anni trascorsi dall’apertura della I40.
Ma personalmente l’ho sempre preferita così con i suoi ruderi che raccontano con dovizia di particolari quello che è stata a differenza delle tante finte ghost towns ricostruite ad uso e consumo dei turisti che spesso popolano gli USA.
Sono entrato a Glenrio 3 volte da est e due da ovest; l’ingresso da est è quello che preferisco, sempre dopo una sosta al midpoint di Adrian.
Entrando a Glenrio l’emozione prende il sopravvento man mano che le prime testimonianze dei suoi anni d’oro si affacciano all’orizzonte.
Texas Longhorn Motel
C’è un briciolo di timore generato dai cartelli che consigliano i viaggiatori di non addentrarsi all’interno di quei ruderi poiché sono comunque di proprietà privata.
Il Brownlee Diner
C’è il Texas Longhorn Motel, con la sua insegna decadente e quasi del tutto cancellata dai vandali, ed il Brownlee Diner, tra le costruzioni più fotografate della piccola ghost town.
Il silenzio la fa da padrone ed è rotto solo dal sibilo del vento e dal sinistro suono dei rattlesnakes.
Una delle volte che passai di li in direzione Tucumcari, mi imbattei in una tartarughina che lentamente stava attraversando, da una sponda all’altra, quella strada storica.
E’ stata una delle poche forme di vita con le quali ho incrociato il mio cammino li a Glenrio.
Mi fermo sempre ad osservare quelle rovine cercando di immaginarle nei suoi anni d’oro, con la ferrovia e la gloriosa highway che ne hanno garantito, per un lungo periodo, una prospera esistenza.
Il sole, che è sempre forte, ed il vento caldo donano un fascino sinistro e selvaggio a quel che resta di Glenrio.
E percorrere il tratto sterrato che la collega a San Jon è altrettanto emozionante quanto liberatorio: è una delle tante possibilità offerte dalla vecchia highway di farla finita con le interstates ed il loro caos.
Purtroppo, tra il 2021 ed il 2022, qualcuno ha acquistato l’area di Glenrio per realizzare aree di sosta per i camper e forse un motel ed altre attività commerciali.
Quindi a distanza di quasi 40 anni anche Glenrio riprenderà vita.
Non sarà mai più quella di prima, non sarà mai più un vero tuffo nel passato e le emozioni che il suo fascino regalava non ci saranno più.
Il tetto del Texas Longhorn motel è stato demolito verso la fine del 2021, un atto di barbarie che a mio parere poteva essere evitato.
Di getto, appena saputo di Glenrio scrissi queste righe: Avrà senso chiamarla ancora “Historic”? interrogandomi sull’opportunità di usare ancora l’aggettivo “Historic” per definire qualcosa che la storia la stava pian piano letteralmente demolendo.
Certo, si possono rivitalizzare anche le ghost towns lungo la Route 66, iniettando nuova linfa, dando un’immagine nuova per attrarre turismo, ma la storia andrebbe rispettata.
Purtroppo gli edifici storici di quasi tutta la Route 66 sono posseduti da privati e la loro vendita li espone inevitabilmente all’eventualità di una demolizione; è già successo tante volte lungo la vecchia highway.
Ed è anche quello che probabilmente accadrà a Glenrio ed alle sue icone storiche.
E quindi… addio Glenrio, ti ho visitata 5 volte, ti ho amata e mi hai regalato emozioni forti.
Ho tante foto e diversi video che mi parleranno di te ed anche grazie a questi custodirò i miei ricordi meglio di quanto la tua gente ha fatto con te.
“La Route 66 è la strada dei sogni realizzati e dei sogni perduti” Michael Wallis, scrittore
E la Historic Route 66 non esisterebbe senza Seligman.” Roger Naylor, scrittore
Seligman è senza dubbio una delle cittadine più conosciute della Route 66 ed è anche tra le più amate dagli appassionati della vecchia highway.
E’ la più conosciuta soprattutto per la sua collocazione geografica che la pone nelle vicinanze del Grand Canyon e quindi rappresenta un punto di passaggio per coloro che visitano il famoso parco e proseguono il proprio viaggio verso Los Angeles.
Sono in molti che, attratti dal fascino che il nome “Route 66” trasmette, decidono di attraversare la piccola cittadina dell’Arizona anche solo per immergersi un po’ in un mondo così famoso ma del quale a volte non ne sanno molto.
Molti se ne appassionano e magari decidono di percorrere per intero la vecchia highway in uno dei loro viaggi futuri, altri, probabilmente con gli occhi ancora pieni delle bellezze dei parchi che hanno appena visitato ed ignorando quasi del tutto la sua storia e quella della strada che l’attraversa, non la capiscono e la denigrano.
Seligman è una città ferroviaria, come tante, quasi tutte le comunità che si trovano lungo la Route 66.
E’ nata nel 1886 con il nome Prescott Junction e si trova nella Yavapai County.
Il nome Prescott Junction deriva dal fatto che, in quegli anni, rappresentava il crocevia tra la ferrovia che collegava la cittadina di Prescott e la linea ferroviaria principale della Atlantic & Pacific Railroad.
La compagnia ferroviaria in quegli anni decise di spostare molte sue infrastrutture a Prescott Junction e per questo motivo la cittadina cominciò a fiorire.
Una decina di anni più tardi Prescot Junction diventò Seligman, in onore dei fratelli Seligman, tra i maggiori azionisti della ferrovia.
Seligman, come altre cittadine lungo questo tratto della Route 66, era originariamente attraversata dalla Beale’s Wagon Road (vedi “Beale’s Wagon Road” per approfondimenti), che successivamente diventò National Old Trails Highway ed infine, nel 1926, U.S. Highway 66 (“Doveva chiamarsi 60”).
Seligman è la città natale di uno dei personaggi più amati della Route 66, Angel Valadez Delgadillo (vedi “Angel Delgadillo”), un uomo chiave per la rinascita della Route 66 e per la sua trasformazione in una delle mete più popolari dei viaggi negli USA.
Seligman ha conosciuto momenti di forte crescita economica, grazie alla concomitante presenza della Route 66 e della ferrovia.
Come racconta Angel Delgadillo, c’erano momenti nei quali era addirittura impossibile attraversare la strada, la Route 66, da un marciapiede all’altro per l’enorme quantità di automobili che, soprattutto durante il periodo di chiusura delle scuole, passava per Seligman.
Tuttavia tutto cambiò nelSettembre del 1978 quando, con l’apertura della Interstate 40 nei pressi di Seligman, il traffico automobilistico che attraversava la piccola comunità dell’Arizona si interruppe. Fu come se qualcuno avesse chiuso un cancello lungo la Route 66.
In concomitanza con l’apertura della I40 anche le infrastrutture della ferrovia a Seligman vennero chiuse.
Fu la sua definitiva condanna a morte.
Ed è qui che entra in gioco la testardaggine di Angel Delgadillo che, insieme ad altri gestori di locali della zona, costituì quella che di fatto fu la prima associazione legata alla Route 66 (la “Route 66 Association of Arizona”), attraverso la quale iniziò a coinvolgere le autorità dello stato dell’Arizona con l’obiettivo di rivitalizzare la sua Seligman evitandole quella che appariva come una fine inevitabile.
Dopo anni di battaglie e di sofferenza (“non avevamo niente da mettere sul piatto per mangiare in quei 10 anni” mi raccontava Angel in uno dei miei incontri con lui), lo stato dell’Arizona, nel 1987, riconobbe il tratto tra Kingman e Seligman come strada dall’interesse storico: “Historic Route 66”, il primo tratto della vecchia highway a fregiarsi di quel nome.
Ci sono molti locali storici a Seligman.
Il Copper Cart, il locale dove si riuniva l’associazione di Angel (oggi diventato Route 66 Motoporium) con la sua bellissima insegna o l’Historic Seligman Sundries, il locale più vecchio della comunità, un bellissimo gift shop (visibile anche nel video della canzone “Spicifrin boy” di Zucchero) che è stato negli anni un cinema, un trading post ed una sala da ballo.
Copper CartHistoric Seligman Sundries
Per non parlare dei numerosi, splendidi motels storici.
Route 66 MotelStagecoach MotelSupai Motel
Molti, tra coloro che non hanno mai percorso interamente la vecchia highway, pensano che tutta la Route 66 sia come Seligman.
La Route 66 è lunga quasi 4000Km, attraversa 8 stati molto diversi tra di loro ed ognuno di essi fornisce alla strada il suo imprinting.
Mi sento di dire che, relativamente all’Arizona, Seligman è la cittadina che meglio di altre riesce a dare l’idea di cosa abbia rappresentato la Route 66 da quelle parti, sia negli anni del suo boom che in quelli del suo declino.
E lo fa senza artificiosi espedienti come accade, ad esempio, per altre cittadine non molto distanti.
Seligman è stata una cittadina fondamentale per la rinascita dell’interesse intorno alla Route 66 e la presenza di Angel Delgadillo, con i suoi racconti ed il suo contagioso sorriso che dona serenità e gioia, la rendono un riferimento imprescindibile per conoscere la storia della vecchia highway.
Lo staff di Cars, il film di animazione della Pixar del 2006, ha attinto a piene mani da Seligman e soprattutto dai racconti di Angel.
Seligman è un concentrato di passione, di resilienza e di visione ottimistica del futuro.
Una cittadina data per spacciata che con forza ha saputo reinventarsi per non morire.
Esperienza personale:
Sono arrivato la prima volta a Seligman in un tardo pomeriggio di settembre, dopo un copioso acquazzone che a Flagstaff, da dove provenivo, aveva assunto la forma di una violenta grandinata.
La strada, che per gran parte di quel tratto (ad eccezione dello sterrato di Parks) è la I40, era coperta di bianco e la percorsi a bassa velocità per paura di sbandare.
Interstate 40 in direzione West
Anche lo sterrato di Parks era ai limiti della praticabilità per via della pioggia, ma nonostante ciò non me la sentivo di lasciarlo e lo percorsi per intero fino a Williams.
Il vecchio tratto sterrato della Route 66 in prossimità di Parks
In prossimità di Seligman, poche miglia ad ovest di Ash Fork per la precisione, si lascia definitivamente la I40 che in Arizona, fin dal confine con il New Mexico, ha sostituito la vecchia highway, per imboccare quello che è il tratto continuo più lungo della Route 66 che ci accompagnerà fino al confine con la California.
Torna la Route 66, quella che ti ruba il cuore, quella che da queste parti è un infinito rettilineo circondato da paesaggi aridi, ma non ancora estremi come quelli che si incontreranno più avanti in California.
Crookton Rd./Route 66 poche miglia ad ovest di Ash Fork
A Seligman, quella volta, soggiornavo allo Stagecoach 66, uno dei bellissimi motels storici ancora operativi in città.
Stagecoach 66
Il primo impatto con la comunità fu subito piacevole.
Sono tornato a Seligman altre volte, in totale 5, ed ogni volta la sua atmosfera colorata e gioiosa mi ha contagiato.
Fondamentale per Seligman, per la Route 66 ed uno dei motivi delle mie scorribande nella piccola cittadina dell’Arizona è la presenza di Angel Delgadillo, un meraviglioso personaggio che ho avuto il privilegio di incontrare 3 volte.
Oltre agli incontri con Angel, adoro percorrere a piedi la Route 66 entrando nei locali che si trovano ai suoi lati: il Motoporium, il Seligman Sundries, ho mangiato al Roadkill Cafe, dove ho gustato uno degli hamburger più buoni della Route 66, al Roadrunner Cafè, allo Snow Cap del defunto fratello di Angel, Juan Delgadillo (venuto a mancare nel 2004); oggi il locale è gestito da John, il figlio di Juan, ed è impossibile restare impassibili di fronte alla sua simpatia.
Io e John Delgadillo
Seligman è sempre nel mio cuore, è uno dei simboli della resurrezione della vecchia highway e come lei non morirà mai.
“Quando nel 1978 siamo stati bypassati dalla interstate, alcune attività hanno iniziato a risentirne pesantemente, è iniziata una lotta per la sopravvivenza e quelle più forti ce l’hanno fatta. Abbiamo aspettato che il mondo ci riscoprisse, che prendesse coscienza che la Route 66 non era stata completamente distrutta.
Abbiamo formato la nostra associazione. Abbiamo avuto un primo incontro al Copper Cart. Fu coinvolta gente di Kingman, Truxton, Oatman e di altre comunità di questo tratto della Route 66.
Ben presto abbiamo iniziato a vedere i risultati di questo nostro impegno: molte persone iniziarono ad uscire dalla interstate per tornare nelle nostre città e lungo la vecchia highway.
Durante la Grande Depressione, la vita diventò difficile, mio padre aveva poco lavoro e ci stavamo preparando ad unirci alla gente in fuga verso la California. La nostra casa era pronta per essere chiusa e mio padre ed i miei fratelli prepararono la nostra Ford T, avevano anche costruito un rimorchio per trasportare tutte le nostre cose. Ero molto piccolo ed ero davvero impaurito per quello che ci poteva capitare. Fu allora che i miei fratelli Juan e Joe ottennero un lavoro come musicisti in una band che suonava lungo la Route 66, e non siamo più dovuti partire.” Angel Delgadillo, The Guardian Angel of Route 66
Buon Compleanno Angel!
Una figura leggendaria della Route 66, Angel Valadez Delgadillo, “The Guardian Angel of Route 66” oggi compie 96 anni.
Angel è nato il 19 aprile del 1927 ed ha legato indissolubilmente la sua vita a quella della Mother Road.
Senza il suo impegno, la sua testardagine, con buona probabilità oggi non avremmo avuto modo di vivere il sogno di percorrere una strada meravigliosa.
Ho incontrato 3 volte Angel (nel 2016, nel 2017 e nel 2018) ed è stato sempre estremamente emozionante.
Per qualsiasi appassionato della Route 66, Angel Delgadillo è una vera e propria leggenda vivente.
“Se consulti una mappa stradale aggiornata ti accorgerai che quella linea sottile che un tempo era la Route 66 è spesso tagliata a pezzi dalla intestate. Ma molto della vecchia highway è ancora li ed oggi è perfino più eccitante di allora. Quando riconquisti qualcosa che temevi di aver perso, il sentimento che provi è di gran lunga più dolce.”
Tom Snyder, scrittore e fondatore della US Route 66 Association
La Route 66 che conosciamo oggi è l’insieme dei tratti che durante i suoi 59 anni di servizio hanno fatto parte della U.S. Highway 66.
Non è quindi un semplice percorso che collega il punto “A” (Chicago) al punto “B” (Santa Monica), ma un agglomerato di strade che, anche per un breve periodo, hanno fatto parte della Mother Road.
Tratti abbandonati per ragioni di sicurezza (perché il volume di traffico stava diventando importante ed i rischi per gli automobilisti aumentavano), per ragioni legate a necessità storiche (il passaggio dei blindati durante la seconda guerra mondiale) o anche per ragioni politico/clientelari.
Questi vecchi tratti abbandonati hanno molto da raccontare e per questo non vanno mai trascurati quando si pensa ad un viaggio lungo la Mother Road.
In Illinois ce n’é uno tra i più belli dell’intero percorso della vecchia highway: la Auburn Brick Road.
E’ un brevissimo tratto di strada, poco più di 2 Km, che si immerge nelle campagne dell’Illinois.
La vecchia highway è arrivata a noi in diverse forme: sterrata, asfaltata, pavimentata in cemento portland e, nel caso della Auburn Brick Road, pavimentata in mattoni rossi.
Questo bellissimo tratto di strada fu ereditato dalla precedente IL4, la strada che prima della 66 collegava Chicago a St. Louis, ed ha fatto parte del percorso della Mother Road dal 1926 al 1930.
La IL 4, la cui realizzazione risale agli inizi del secolo scorso, fu una delle prime strade ad essere interamente pavimentate, caratteristica questa trasferita alla Route 66 dopo il 1926 (il tratto in Illinois fu quindi uno dei primi della Mother Road ad essere interamente pavimentato).
Tuttavia, durante la sua appartenenza al percorso della Route 66, la superficie della Auburn Brick Road non era in mattoni, così come la vediamo oggi, ma in cemento.
Nel 1930, in conseguenza del crescente numero di veicoli circolanti, la Route 66 “licenziò” la vetusta IL4 per spostarsi più ad est, nel tratto che ancora oggi passa per Litchfield.
Fu un cambiamento molto importante.
La Route 66 prometteva benessere e grandi opportunità a coloro che la percorrevano e che vivevano lungo il suo percorso e per non perdere queste opportunità alcune attività la seguirono, come ad esempio uno storico locale della 66, l’Ariston Cafè, che si spostò da Carlinville, sulla Route 66/IL4, a Litchfield, dove ancora oggi la vecchia highway fa tappa.
Entrambi i tronconi della Route 66 sono oggi percorribili.
Da quelle parti, come del resto lungo tutto il percorso della vecchia highway, è abbastanza frequente imbattersi in cartelli che indicano gli anni nei quali la Mother Road è passata di li.
La nostra IL4, di cui la Auburn Brick Road faceva parte (Auburn Brick Road o Illinois Brick Road sono denominazioni attribuite in tempi recenti a questa strada), a partire dal 1930 divenne quindi estranea al percorso della vecchia 66.
Due anni dopo, nel 1932, questo piccolo tratto di strada venne allargato di circa un metro, furono eliminate alcune curve troppo pericolose e, soprattutto, fu pavimentato in mattoni rossi.
La Auburn Brick Road è entrata a far parte del registro nazionale dei luoghi storici e nella descrizione che viene fatta nel documento di registrazione si può leggere:
“Per una ragione ancora oggi non chiara, il tratto in cemento Portland esistente è stato ampliato da 16 a20 piedi e ripavimentato con dei mattoni.”
La “ragione non chiara” ha dato adito a diverse speculazioni, tra le quali, la più accreditata, vuole che il rifacimento della superficie della strada fosse stato esplicitamente chiesto da un governatore dello stato dell’Illinois che all’epoca aveva rapporti molto stretti con una fabbrica di mattoni.
Un rapporto clientelare come se ne raccontano diversi lungo questa parte della Route 66.
A tal proposito la scrittrice e fotografa Quinta Scott racconta:
“L’Illinois ha pavimentato le sue strade anni prima del resto degli stati lungo la 66…
… All’inizio era una strada in cemento, poi pavimentata in mattoni e poi di nuovo in cemento.
Tre strati di pavimentazione.
La superficie della strada dipendeva dagli interessi finanziari del governatore in carica.”
Al di la delle motivazioni che hanno portato alla ripavimentazione della ormai ex Route 66, di fatto la Mother Road, nel periodo in cui era in servizio lungo questo tratto, non è mai stata in mattoni, ma in cemento come il resto della IL4.
Storie e leggende a parte, la Auburn Brick Road è senz’altro uno dei tratti più belli della vecchia highway ed il rosso dei mattoni, seppur postumi alla sua appartenenza alla Route 66, le conferiscono un fascino unico.
Ubicazione:
La Auburn Brick Road è un tratto della vecchia IL4/Route 66 lungo circa 2km, è ubicato nella Sangamon County in Illinois a poco più di 20Km a sud di Springfield; le sue attuali denominazioni ufficiali (da nord a sud) sono Snell Rd e Curran Rd.
Esperienze personali:
Ho percorso 5 volte la Auburn Brick Road: l’ho percorsa la mattina presto, la sera al tramonto, con il sole e dopo un violento acquazzone, arrivando sia da est che da ovest, l’ho percorsa a maggio, agosto ed a settembre.
Sono tante volte quindi, in diversi orari della giornata, con diverse condizioni meteorologiche ed in diversi periodi dell’anno ma con elemento in comune: l’emozione.
Si trova poco dopo Springfield (IL), in un cosiddetto viaggio “westbound”, ed anche se Springfield non è Chicago, è comunque una città che non invita a rilassarsi e quindi la Auburn Brick Road è una vera e propria boccata d’ossigeno.
La Auburn Brick Road arriva all’improvviso, senza neanche rendersene conto appare davanti a noi in tutta la sua bellezza: il grigio dell’asfalto si interrompe bruscamente per diventare rosso, la modernità lascia spazio alla storia.
In primavera ed in estate il contrasto tra il rosso dei mattoni ed il verde dei campi è meraviglioso.
Percorrerla è un attimo, per questo indugio sempre un po’ prima di lasciarla.
Mi piace respirarne i profumi, lasciarmi cullare dal dolce saltellio della macchina sui mattoni, camminare con la macchina fotografica in mano, pronto a coglierne ogni dettaglio.
Un piccolo pezzo di quella strada è qui con me, immerso nella sabbia del White Sands National Park.
La Auburn Brick Road è senza dubbio uno dei miei tratti preferiti della Route 66.
Alcune foto scattate lungo la Auburn Brick Road:
Auburn Brick Road
Un breve video che ho girato lungo la Auburn Brick Road (entrando da ovest, in direzione Springfield):
“Ho iniziato a percorrere, esplorare e fotografare quello che resta della Route 66 nel 1992. Qualcuno potrebbe chiamarla ossessione, ma è solo una passione che da allora fa parte di me e che non sembra destinata a finire.” Drew Knowles, scrittore
Io ho iniziato in realtà nel 1996, in viaggio di nozze percorsi una parte del tratto californiano nel mio tragitto da Las Vegas a Los Angeles, ma, come per Drew Knowles, è diventata una passione che non è destinata a finire.
Uno dei miei riti è il calendario che ogni anno raccoglie 12 tra le oltre 20.000 foto che in tanti anni ho scattato lungo la vecchia highway.
Ogni mio viaggio è caratterizzato da tantissime foto; del resto fare foto è il mio lavoro.
Ed una volta a casa realizzo e stampo un fotolibro che contiene quelle che mi sono piaciute di più.
Del viaggio negli USA del 2019, il mio undicesimo, non lo avevo ancora fatto.
E’ stato uno dei viaggi più belli, insieme a quello dell’anno precedente quando avevo percorso la Route 66 “al contrario” (da LA a Chicago).
Nel 2019 ho viaggiato nel sud degli USA, partendo da Atlanta, verso Nashville, Memphis, New Orleans, Houston, San Antonio e poi l’immancabile Route 66, che ancora una volta, come l’anno prima, ho percorso “al contrario” (Eastbound), da Tucumcari a Chicago.
E’ stata la mia sesta volta a Tucumcari (ed al Blue Swallow Motel) e la quinta lungo il tratto est della Mother Road.
Ho rivisto tanti amici, ho salutato Nancy e Kevin del Blue Swallow (il motel sarebbe stato venduto l’anno successivo), che mi hanno riempito di regali tra i quali la notte alla Lillian Redman Suite, la stanza più bella del motel, quella dedicata alla sua storica proprietaria.
E’ stato un viaggio meraviglioso del quale mi restano bellissimi ricordi, tante foto e l’immancabile fotolibro.
La pandemia mi ha fatto (ri)scoprire l’Italia. Ho sempre pensato che il mio paese, avendocelo intorno, avrei potuto visitarlo più avanti, quando la voglia di andare lontano sarebbe inevitabilmente venuta meno lasciando spazio a vacanze più comode, meno impegnative di quelle che sono abituato a fare.
Ho trascorso il decennio scorso viaggiando ogni anno negli USA, prevalentemente lungo la “mia” Route 66, con alcune deviazioni in Norvegia.
Viaggi non propriamente rilassanti, ma senz’altro entusiasmanti.
Questi ultimi due anni vissuti tra la paura del virus e le restrizioni introdotte dai vari paesi a tutela della salute pubblica, hanno accelerato il processo di rivalutazione del “mio” territorio.
Il Molise, la Toscana, la Liguria e, soprattutto, il Friuli sono state le mete che in questi 2 anni sono assurte al ruolo di protagoniste delle mie vacanze. Il Friuli in particolare. Avevo programmato questa vacanza nel 2020, pochi mesi dopo la fine del lockdown, ma ancora in piena emergenza, ma per varie ragioni dovetti rinunciare. L’ho riprogrammato nel 2021, ancora con il blocco dei viaggi in alcuni paesi stranieri e con poca voglia di rischiare, ma è stato un viaggio “zoppo” nel senso letterale del termine: ho girato con le stampelle a causa di una frattura ad un piede subita pochi giorni prima di partire. In quell’occasione pensai sarebbe stato meglio lasciar stare, ma alla fine partii lo stesso e nonostante le stampelle rimasi piacevolmente sorpreso da quello che riuscii a vedere. Avevo con me Tigra, la mia dolcissima gattina presa nel 2020, che con i suoi modi sghembi mi alleggerì non poco la fatica degli spostamenti, una deambulazione a cui non ero ovviamente abituato.
Ma, come detto, rimasi piacevolmente sorpreso al punto che anche quest’anno, ho pensato di tornarci, sempre con la mia Tigra, e sempre come sede la “Locanda al Grop” a Tavagnacco (Udine), una location davvero molto bella. Devo ammettere che il Friuli mi è entrato nel cuore. Fresco, rigoglioso, ricco di storia, tranquillo, rilassante, pieno di belle cose e di bella gente.
E questa volta nulla mi ha impedito di godere appieno delle sue bellezze.
TigraLocanda al Grop
Il Vajont. (2021 e 2022)
Diga del Vajont
“Ogni tanto qualcuno mi chiede se ho perdonato. No. Non ho perdonato. Non potrò mai perdonare gli uomini che hanno consentito tutto questo.”
Tratto dal film “Vajont – La diga del disonore” di Renzo Martinelli (2001)
E’ stata l’ultima tappa del viaggio del 2021 e la prima di quest’anno.
Vajont è la storia di un disastro annunciato, uno dei tanti che troppo spesso accadono nel nostro paese.
Nei pressi del comune di Erto-Casso (due piccoli paesi nella Valcellina uniti in un unico comune) nel 1957 cominciano i lavori per la costruzione di una diga (all’epoca la diga a doppio arco più alta del mondo), il cui fine era di realizzare un bacino idrico per la produzione di energia elettrica.
La diga del Vajont è un gioiello di ingegneria civile, ma realizzata nel posto sbagliato.
La montagna, il monte Toc, era di roccia friabile e presentava quelle che venivano definite come paleofrane, delle frane, risalenti a tempi remoti.
Non era affatto un sito stabile e sicuro dove realizzare un’opera di quelle proporzioni.
Siamo nella valle del torrente Vajont, un corso d’acqua che si unisce al Piave.
Alle 22:39 del 9 ottobre del 1963 una parte del monte Toc viene giù e riempie l’invaso creando un’onda d’acqua enorme.
Circa 260 milioni di m³ di roccia (un volume più che doppio rispetto a quello dell’acqua contenuta nell’invaso) franarono, alla velocità oltre 100 km/h, nel lago creato dalla diga.
Una parte dell’acqua colpì i paesi di Erto e Casso mentre l’onda più grande, alta oltre 250 metri al di sopra della diga, la scavalcò dirigendosi a valle radendo al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Faè, Villanova, Rivalta ed altre frazioni limitrofe.
Circa 2000 persone persero la vita (tra cui oltre 400 bambini sotto i 15 anni), uccise dalla fame di danaro di chi ha costruito quella diga in una zona inadatta ad ospitare un bacino idrico e di chi avrebbe dovuto controllare ma non lo ha fatto.
Ammetto che, come molti peraltro, prima di partire per il Friuli lo scorso anno sapevo ben poco di questo immane disastro, e quel poco era anche molto confuso.
Non si è mai parlato abbastanza del Vajont, ed i motivi si possono benissimo intuire: lo stato e la politica hanno avuto forti responsabilità sull’accaduto e di fatto nessuno ha pagato per quello che è successo.
In questi due anni mi sono documentato guardando tutto ciò che è possibile trovare su youtube: documentari, testimonianze dei pochi sopravvissuti, ricostruzioni postume.
Su tutti c’è lo splendido monologo di Marco Paolini, un video di oltre 2 ore durante le quali viene raccontata la storia del disastro.
Paolini qui è magistrale, magnetico, sarcastico, feroce.
Nel monologo viene citato un libro da cui Paolini ha preso spunto per il suo monologo, un libro che ho letto avidamente lo scorso anno: “Sulla pelle viva – Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont” di Tina Merlin, una giornalista dell’Unità che da sempre si era battuta per la tutela della valle e dei suoi abitanti scagliandosi contro i poteri forti della società idroelettrica costruttrice della diga (la SADE) e lo stato connivente.
Lo scorso anno ho potuto visitare solo la sommità della diga ed il piccolo paese di Erto.
Quest’anno, libero da limitazioni fisiche, sono sceso fin sotto la diga, ho visitato il paese di Casso, il museo di Longarone ed il cimitero monumentale di Fortogna a pochi km da Longarone.
E’ stato tutto estremamente toccante.
Ci tenevo a completare il mio percorso attraverso i ricordi, la mia personale “diretta sulla memoria” come Paolini ha chiamato il suo monologo, ed alla fine ci sono riuscito e ne sono felice.
Museo del Monte San Michele (2022)
Museo del Monte San Michele
Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata
Come questa pietra è il mio pianto che non si vede
La morte si sconta vivendo
Giuseppe Ungaretti, “Sono una creatura”
Il Friuli Venezia Giulia è il racconto della prima guerra mondiale, la grande guerra.
Ogni suo angolo narra le gesta degli eroici soldati che la combatterono, e tra questi Giuseppe Ungaretti, i cui scritti sono spesso riportati nel museo del Monte San Michele.
E’ stata una visita tra le più belle ed emozionanti del viaggio di quest’anno.
Il cielo plumbeo, messaggero di una pioggia imminente, contribuiva a rendere evocativo il mio peregrinare tra i sassi e le trincee di questo posto.
Si parte con l’analisi geo politica dell’Europa di quel periodo attraverso degli schermi interattivi per poi proseguire con una sorta di “cinema dinamico”, un metaverso ante litteram.
Ci si siede su una sedia con delle rotelle, si indossa un visore e ci si immerge per 20 minuti negli scenari di guerra.
Si è circondati da scene ricostruite meravigliosamente.
Ovunque ci si giri con la testa e con il corpo si vedono situazioni che si evolvono intorno a noi.
20 minuti amari ma estremamente emozionanti.
E poi la visita alla galleria cannoniera, un lungo cunicolo sotterraneo utilizzato dalla terza armata dell’esercito italiano. Un’altra gemma, un luogo che lascia nel cuore amarezza (soprattutto perché in questi giorni la guerra è tornata, purtroppo, d’attualità), ma senza dubbio uno dei posti più belli che ho visitato quest’anno.
Pesariis (2022)
Pesariis
“Ogni “tic-tac” è un secondo della vita che passa, fugge e non si ripete. E in essa c’è tanta intensità e interesse che il problema è solo saperla vivere.”
Frida Kahlo
Pesariis è una piccola frazione di Prato Carnico nella Carnia.
È il paese degli orologi.
Se ne incontrano diversi camminando tra le vie del bellissimo paese.
Una delle aziende più importanti della tecnologia italiana legata al tempo, la Solari di Udine, nasce qui a Pesariis nel 1700.
Nel piccolo ma graziosissimo museo degli orologi se ne possono osservare diversi valutandone l’evoluzione negli anni.
Pesariis è affascinante, un posto dove il tempo non si è fermato, ma è scandito dai suoi bellissimi orologi sparsi un po’ ovunque sulle mura delle case.
Venzone (2022)
Venzone
“Ai gatti riesce senza fatica ciò che resta negato all’uomo: attraversare la vita senza far rumore.”
Ernest Hemingway
Amo i gatti.
Li ho sempre amati ma da quando la mia piccola Tigra è con me li amo ancora di più.
Sono eleganti, indipendenti, amano proteggere i loro spazi, intesi come momenti da trascorrere in solitudine, nascondono con innata maestria le proprie debolezze e fingono di ignorare i propri errori non permettendo a nessuno di approfittarne.
Una delle immagini più belle che ho di Venzone è quella di un gatto anziano, quasi cieco, dal pelo non proprio lucidissimo che attraversava la strada con fierezza nonostante trasparisse una comunque ben celata incertezza dovuta all’età.
Non so se fosse un gatto o una gatta, era rosso quindi potrebbe essere maschio, ma aveva un’orecchia tagliata come di solito, almeno qui a Roma, si usa fare con le gatte dopo la sterilizzazione.
A me piace immaginarla femmina e, come una bellissima ed anziana signora conscia delle tante primavere trascorse, si muoveva mostrando con orgoglio le cicatrici che il tempo le aveva lasciato.
Camminava con altera eleganza, incurante degli sguardi ammirati della gente, perché dentro di se sapeva di meritare solo ammirazione e rispetto.
Era tanta la gente, me compreso, che si era fermata ad osservarla mentre attraversava la vecchia via di Venzone in direzione delle sue rovine.
E li davanti si è fermata ad osservarle.
Chissà quanti bei ricordi le saranno tornati in mente, chissà quanti amori quelle rovine le avranno ricordato.
Sono stati 10 bellissimi minuti quelli trascorsi assieme a lei.
Venzone è bellissima, è uno dei borghi più belli d’Italia, protetta oltre che dalle sue splendide mura anche dalle montagne che la cingono.
Percorrendo le sue vie ci si immerge nella sua storia.
Il terremoto del ‘76 l’ha fortemente minata, ma è riuscita a risorgere mostrando a tutti il suo fascino.
Esattamente come quella splendida gatta che attraversava la sua via.
“Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.”
Nelson Mandela
Il cippo dei tre confini è il punto di incontro di 3 popoli: gli italiani, gli austriaci e gli sloveni.
Si trova in cima al monte Forno e si può raggiungere in vari modi: in bici a piedi o più comodamente in seggiovia dal lato austriaco.
Ed è quello che ho fatto io.
Il punto di partenza della seggiovia Dreiländereck è nel paese di Arnoldstein, poco dopo il confine con l’Italia.
È senza’altro un modo comodo per arrivarci, ma non essendo ne un ciclista ne un camminatore, è stata la modalità che ho preferito.
Una volta scesi dalla seggiovia bisogna salire ancora, questa volta a piedi, per circa una ventina di minuti su un pendio che conduce al cippo su cui sono riportate le iscrizioni che indicano, appunto, gli stati che lo lambiscono.
Da anni qui si celebra la festa dell’amicizia, un importante attestato di vicinanza tra i popoli che oggigiorno assume ancora più rilevanza.
Il clima lassù è splendido, era una bellissima giornata di sole con un vento fresco che accarezzava il viso.
Ed il colpo d’occhio regalava attimi di impagabile armonia.
L’affascinante panorama alpino la fa da padrone anche nel pomeriggio, lungo la splendida Villacher Alpenstrasse, una strada (a pagamento) di circa 16 Km che si arrampica oltre i 1000 metri di altitudine. Una splendida, rilassante giornata lungo il lato austriaco delle Alpi.
Monte Lussari (2021 e 2022)
Monte Lussari
“I Monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi.”
Johann Wolfgang von Goethe
E’ stata una delle poche uscite “ardite” che riuscii a fare lo scorso anno con le stampelle, e ne valse la pena.
Lo spettacolo che propone il santuario del monte Lussari appena sceso dalla funivia è di quelli che ti stordisce.
La sua bellezza ti confonde, ti lascia senza parole, ti fa pensare come mai non si è pensato prima di venire da queste parti.
E quest’anno, libero da impedimenti, ci sono tornato.
Amo i miei riti, ne costruisco ovunque, mi fanno sentire a casa.
Ed anche stavolta ho pranzato nella stessa baita dello scorso anno, stesso primo, stesso mezzo litro di Friulano.
E poi in giro per i sentieri prima di scendere di nuovo a valle.
Rispetto all’anno passato sono in corso dei lavori per la sistemazione delle piccole strade che dalla valle portano in cima.
Viene steso del cemento, pare per permettere l’arrivo del giro d’Italia di ciclismo del 2023 (una delle tappe terminerà proprio al santuario del monte Lussari).
Non mi piace gran che come idea, un luogo splendido andrebbe preservato e se si vuole pubblicizzarlo di più si potrebbero trovare altri modi meno invasivi. Sono felice di esserci tornato, al Monte Lussari tornerei sempre è uno di quei posti che non mi stanca mai.
Grotte di Pradis (2022)
Grotte di Pradis
“La mia anima non può trovare nessuna scala per il Paradiso che non sia la bellezza della Terra.“
Michelangelo Buonarroti
La strada per arrivarci è spesso tortuosa, stretta, asseconda i saliscendi delle montagne senza alterarne la fisionomia.
Ma una volta arrivati, ti accorgi che ne è valsa davvero la pena: le Grotte di Pradis sono uno spettacolo.
Un meraviglioso canyon scavato dall’acqua del torrente Cosa nella roccia carsica.
Si paga un economicissimo biglietto d’ingresso, solo 4,50€… così poco per così tanto.
Mi tornano in mente i soldi buttati per vedere assurdità in paesi lontani, accozzaglie di inutili rottami senza senso per i quali ho pagato molto di più.
Si trascorrono un paio di piacevoli ore all’interno del parco, entrando nelle grotte naturali facendosi circondare dalla luce che timida trapela dalle fessure della roccia.
Le Grotte di Pradis sono davvero un posto bellissimo.
Ed infine di nuovo i gatti con una fermata al pub “Di cane in gatto” a Martignacco, insieme a 4 piccoli scalmanati micetti uno dei quali, attratto dalla mia pizza, ha fatto di tutto per portarmela via al punto da rovesciare il bicchiere di Coca Cola che avevo sul tavolo.
“Non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato”
Giuseppe Ungaretti, San Martino del Carso
Questa è stata una delle tappe dello scorso anno.
Fortemente voluta e, nonostante le stampelle, visitata fino alla sommità del Sacrario.
Quando partii per il Friuli il sacrario era ancora chiuso per il covid e non si sapeva se e quando avrebbe riaperto.
Una volta in vacanza ricevetti un messaggio dai gestori della pagina Facebook del sacrario, ai quali chiesi notizie prima di partire, che mi informavano che avrebbero riaperto.
Troppi ricordi mi legano a Redipuglia.
Non ho parenti che hanno combattuto o che in qualche modo erano legati a quel posto.
Ma Redipuglia mi ricorda mio padre.
Mi ricorda un viaggio che facemmo nel 1976, quando non avevo neanche 10 anni ed ascoltavo i suoi racconti.
Era appassionato di storia, e mi parlava di quei posti e della prima guerra mondiale (lui che da bambino aveva vissuto la seconda).
Ho negli occhi il ricordo di noi due che camminavamo tra i gradoni mentre lo ascoltavo parlare di quella guerra.
Ho ripetuto da solo lo stesso cammino immerso nei ricordi.
Mi sono “arrampicato” con un po’ di fatica fino alla sommità, ricevendo ogni tanto i complimenti della gente che incrociavo.
Tra le tombe dei soldati e degli ufficiali ce n’è una di una donna, una crocerossina: Margherita Kaiser Parodi.
L’unica donna tumulata nel sacrario militare.
Una ragazza che ha speso la sua vita per prendersi cura dei soldati feriti e che, nonostante fosse stata colpita dall’influenza spagnola proprio nell’esercizio delle sue funzioni, rimase al suo posto fino all’ultimo, perdendo la vita a soli 21 anni.
Le rovine romane mi riportano ad immagini che conosco bene.
Per questa vacanza sono riuscito a bilanciare i giorni da dedicare ai siti in montagna e quelli più vicini alla costa.
C’era spesso la minaccia della pioggia in montagna, tranne che 4 giorni centrali del mio soggiorno, e ne ho approfittato per andarci.
Ad Aquileia non ha mai piovuto quindi era una sorta di jolly.
Aquileia è splendida, sontuosa con i suoi reperti archeologici e la sua bellissima cattedrale.
Ho trascorso diverso tempo proprio alla cattedrale salendo sul campanile attraverso lo strettissimo passaggio che in tempi non ancora post covid non era proprio il massimo, soprattutto perché salire con la mascherina ha rappresentato un esercizio di apnea molto complesso.
Ma una volta in cima, si gode di un bellissimo panorama.
Passeggiare ad Aquileia è rilassante, la temperatura è piacevole seppur più alta dei luoghi di montagna visitati nei giorni precedenti. Uno splendido tuffo in scenari che in fondo un po’ mi appartengono.
Foibe di Basovizza (2022)
Foibe di Basovizza
“Homo homini lupus”
Plauto
La storia delle Foibe è terribile, una delle pagine più orribili della civiltà umana.
Cavità naturali o realizzate a scopi minerari diventate testimoni di un sorta di pulizia etnica compiuta dai partigiani jugoslavi ai danni di soldati, civili e prigionieri italiani (ed anche tedeschi), atti di deliberata ferocia, azioni che solo gli esseri umani sono in grado di compiere.
Il tutto, molto spesso, a guerra finita.
Ho aggiunto in extremis questa tappa e sono contento di averlo fatto.
Le iscrizioni sulle pietre lasciano senza fiato e la rabbia spesso si sostituisce alla commozione.
Un posto che merita una visita, un piccolo omaggio a chi ha perso la vita a causa della ferocia dell’uomo.
“Io non ho cominciato a scrivere versi con Le Ceneri di Gramsci, ho cominciato molto prima ed esattamente nel 1929 a Sacile, quando avevo sette anni appena compiuti, e frequentavo la seconda elementare.”
Pier Paolo Pasolini.
Sacile, il giardino della Serenissima come viene con orgoglio definito, ha ospitato l’infanzia di Pasolini, il poeta infatti arrivò quì al seguito del padre, ufficiale dell’esercito.
Sacile è una piccola Venezia, attraversata dal fiume Livenza che ne esalta quelle caratteristiche che, con le dovute proporzioni, la rendono vicina, sia dal punto architettonico delle facciate dei palazzi che visivo, proprio alla Serenissima.
Faceva caldo quel giorno, ma i suoi bellissimi portici offrivano riparo dal sole oltre che un’affascinante prospettiva per le mie foto.
All’ufficio del turismo abbiamo preso una cartina ed abbiamo trascorso una mezz’ora con la signora che lo gestisce, che con entusiasmo e dovizia di particolari ci ha raccontato di Sacile, dei suoi luoghi più rappresentativi e del Regazzoni, un uomo dalle mille risorse.
Un affascinante spaccato della storia di un paese davvero molto bello raccontato con rara passione.
“I colori, come i lineamenti, seguono i cambiamenti delle emozioni.”
Pablo Picasso
I laghi del Friuli hanno mille colori, colori che inebriano ed affascinano.
E’ stata la mia prima uscita del 2021.
E nonostante la mia scarsissima perizia nel muovermi con le stampelle, gli splendidi colori del lago erano un invito troppo forte per rinunciare. Un posto suggestivo che ho riattraversato velocemente anche quest’anno mentre ero diretto alla diga del Vajont.
Trieste e Miramare (2021)
Trieste,piazza Unità d’Italia
“O Miramare, contro i tuoi graniti grige dal torvo pelago salendo con un rimbrotto d’anime crucciose battono l’onde.”
Giosuè Carducci, Miramar.
Ancora 2021.
Faceva caldo, non come quest’anno ma si faceva comunque sentire.
Il castello è stupendo, collocato in un lembo di terra che si proietta sul mare.
C’ero stato da bambino con i miei e qualche ricordo mi era rimasto.
I giardini, il mare, il castello stesso invitano a consumare byte sulla scheda della fotocamera.
Ho faticato un po’ quella volta ma, come sempre da queste parti, ne è valsa davvero la pena.
Fagagna e San Daniele del Friuli (2022)
Fagagna
“Il Friuli è un piccolo compendio dell’universo, alpestre piano e lagunoso in sessanta miglia da tramontana a mezzodì.”
Ippolito Nievo
L’ultimo giorno del mio secondo viaggio in Friuli l’ho trascorso tra Fagagna e San Daniele.
A Fagagna sono arrivato la mattina presto, mi sono “arrampicato” fino alle rovine del suo castello medievale e li mi sono seduto assorto nei miei ricordi di questa vacanza che stava per terminare.
La vista è bellissima ed il silenzio invitava a godersi quei pochi attimi che mi separavano dalla partenza per casa.
Ho trascorso un’ora circa li al castello e nel vecchio borgo prima di andare a San Daniele.
San Daniele è una località turistica, famosa per il suo ottimo prosciutto.
Non mi ha entusiasmato come ad esempio Pesariis, ma merita comunque una visita e l’assaggio del buonissimo prodotto che l’ha resa famosa.
Termina qui il mio secondo viaggio in Friuli, una regione che, come dicevo all’inizio, mi è entrata nel cuore.
È lontana dal caotico turismo di massa, ed è un bene perché tutto è rimasto genuino.
Trovo molte similitudini con il Molise, un territorio che ho avvicinato di recente, entrambi custodiscono tesori di inestimabile bellezza, ma sembra che la gente non abbia molta voglia di farlo sapere.
La consapevolezza della propria bellezza pare sia sufficiente e non si senta la necessità di sbandierarla.
Quest’anno è stata la mia seconda volta da queste parti e non credo sarà l’ultima.
“Ogni tanto qualcuno mi chiede se ho perdonato. No. Non ho perdonato. Non potrò mai perdonare gli uomini che hanno consentito tutto questo.” Tratto dal film “Vajont – La diga del disonore” di Renzo Martinelli (2001)
“La Route 66 è un museo dei primi viaggi in automobile lungo 2400 miglia”
Russell A. Olsen, scrittore
Le è rimasta la denominazione “Standard Oil”, dal nome della compagnia petrolifera, fondata da John D. Rockefeller, il cui carburante fu venduto per primo nella stazione di servizio, anche se nel corso della sua vita sono stati venduti carburanti della Phillips 66 e Sinclair.
Fu realizzata nel 1932 da Patrick O’Donnell con l’intenzione di affittarla successivamente al figlio.
Anche questa stazione di servizio, come la Ambler’s Texaco di Dwight, è stata realizzata su disegno della Standard Oil, una linea guida che forniva alle stazioni di servizio un’estetica che ricordava delle piccole case con porticato (vedi “Le Gas Stations“).
Era una tipologia di impianto molto popolare tra le gas stations di quegli anni.
Negli anni ’40, lungo il tratto di Route 66 nei pressi di Odell, erano presenti diverse stazioni di servizio che alimentavano una forte concorrenza, ma il traffico dei viaggiatori della vecchia highway forniva comunque sostentamento per tutti.
Fu proprio in questo periodo che, per rendere la stazione di servizio più attrattiva, il locale venne ampliato per ospitare un garage dove si fornivano servizi di riparazione auto.
Fu una scelta vincente poichè durante la fase di dismissione della Route 66 la sua presenza contribuì a prolungare la vita dell’impianto.
Nella seconda metà degli anni 40 la Route 66 venne ampliata, diventando una strada a 4 corsie e, soprattutto, venne spostata più ad ovest rispetto al percorso originale, aggirando Odell e la Standard Oil Gas Station.
Fu un’iniziativa molto diffusa in Illinois in quegli anni; si potranno infatti notare durante il viaggio diversi cartelli stradali che indicano di lasciare la strada che si sta percorrendo (il nuovo tratto di Route 66 ) per prendere i vecchi tratti che entrano all’interno nelle comunità.
Molte stazioni di servizio entrarono in crisi (così come tante altre attività commerciali) ma la Standard Oil Gas Station, grazie alla sua officina meccanica, ha continuato ad essere operativa ed a vendere carburante fino al 1967.
Nello stesso anno l’attività fu venduta a Robert Close che l’ha gestita come carrozzeria fino al 1999 quando fu rilevata dalla comunità di Odell che, dopo un accurato restauro, l’ha resa il welcome center della piccola cittadina; nel locale è anche presente un gift shop e, nel garage adiacente l’ufficio, c’è un piccolo museo con reperti dell’epoca.
Nel 1997 la stazione di servizio è stata inserita nel registro nazionale dei luoghi storici.
Esperienza personale
Ho visitato 5 volte anche la Standard Oil Gas Station, avendo percorso altrettante volte il tratto di Route 66 in Illinois.
Poco prima della stazione di servizio ce n’è un’altra (del resto negli anni d’oro nei pochi km di Odell ce n’erano una decina), la Mobil Station, molto meno appariscente della Standard Oil ma che mi appassionava per la presenza di una splendida Chevrolet del 1941, parcheggiata di fianco ad una vecchia pompa di benzina.
Una delle foto che ho scattato a quella macchina, durante uno dei miei viaggi lungo la vecchia highway, l’ho stampata su tela è l’ho appesa nel mio salone.
Già a partire dal 2018, la bellissima Chevrolet è stata purtroppo sostituita da un furgone molto meno attraente.
La Mobil Station nel 2019
Anche nel caso della Standard Oil Gas Station, i miei ricordi più belli sono legati al Red Carpet Corridor del 2017.
Ricordo una colonna di Ford Model A che percorrevano la vecchia highway e si fermarono proprio di fronte alla Standard Oil Gas Station.
Ne approfittai per diversi scatti e per ammirare quei gioielli.
All’interno della gas station i volontari sono sempre molto gentili e disponibili.
Un registro per le firme è, come sempre, a disposizione; accanto a questi diari mi piace sempre trascorrere un po’ di tempo alla ricerca delle mie precedenti registrazioni.
E spesso mi è capitato di trovarle.
Accedendo al gift shop c’è il vano più grande, quello che era adibito a carrozzeria e che oggi ospita un po’ di articoli in vendita nel gift shop e vecchi oggetti della stazione stessa.
Fuori c’era molta gente che si divideva tra il porticato e la visione delle splendide Ford parcheggiate davanti.
La mia ultima visita nel 2019 fu senz’altro più tranquilla.
Arrivai nel tardo pomeriggio, pochi istanti prima della chiusura del gift shop.
Giusto il tempo di acquistare qualcosa, scambiare 4 chiacchiere con la signora che quel giorno era dietro al bancone e di attaccare i miei adesivi ad una delle finestre.
Un viaggio lungo la Route 66 è un viaggio nel tempo ed a me piace terribilmente perdermi con i pensieri immaginando quegli anni in cui la Route 66 era la Main Street of America.
Anni che non ho vissuto ma che in molti mi hanno raccontato e quando sono li, se chiudo gli occhi, posso sentirne perfino il profumo mentre ascolto il suono dolce della vecchia highway.
“Nelle calde serate primaverili il poderoso ruggito di quegli anni gloriosi riappare prontamente.
E per un istante, la città e la sua highway non sembrano affatto vecchie.”
Michael Wallis, scrittore
In Illinois si trovano le stazioni di servizio più belle.
Sono restaurate, un restauro un po’ troppo invasivo a volte, come del resto è d’uso da quelle parti, ma nel caso delle stazioni di servizio non è fastidioso, anzi ci porta lontano, ai tempi in cui questi impianti erano operativi e mascherati da cottages.
Il restauro riesce comunque a conservarne il fascino.
Una delle più belle stazioni di servizio della Route 66, secondo me in assoluto la più bella, è la Ambler’s Texaco Gas Station di Dwight, un piccolo, bellissimo villaggio incastonato nel verde Illinois.
E’ stata realizzata nel 1933, su disegno della Standar Oil Company, da Jack Shore e da suo figlio, all’intersezione tra la Illinois 17 e la US Highway 66, un crocevia importante all’epoca, ed è passata di mano diverse volte con conseguenti cambi di denominazione.
Il nome con il quale la si identifica oggi è quello di Basil Ambler, il proprietaro che l’ha gestita per il periodo più lungo: dal 1938 al 1966.
E’ costruita nel classico stile delle prime stazioni di servizio, ricorda infatti una casa con porticato, uno stratagemma
usato per fornire alla popolazione un’immagine innocua del business della vendita di carburante.
Ha operato fino al 1999 quando per i soliti motivi legati allo spostamento della viabilità di massa sulle velocissime interstates (nel caso dell’Illinois la I55, una delle 5 interstates che hanno preso il posto della Route 66) la vendita di
carburante fu interrotta.
E’ stata una delle stazioni di servizio che ha operato ininterrottamente per il periodo più lungo: 66 anni
Nel 1970 fu acquistata da Phil Becker, originario di Dwight, che l’ha gestita assieme alla moglie fino alla sua chiusura; un altro dei nomi con i quali la stazione di servizio è conosciuta è appunto Becker’s Service Station.
Nel 1999, come detto, venne interrotta la fornitura di carburante ma la stazione di servizio ha continuato ad operare, in affitto, qualche anno ancora come officina meccanica fino a quando i Beckers la donarono alla comunità di Dwight.
La Ambler’s Gas Station oggi ospita un ufficio di informazioni turistiche, gestito da volontari, ed un piccolo museo che racconta la storia del vecchio, bellissimo impianto.
Nel 2001 è stata inserita nel registro nazionale dei luoghi storici.
Esperienza personale.
Ho visitato 5 volte la Ambler’s Gas Station, una fermata immancabile nei miei viaggi lungo la Route 66.
Lo è perchè partendo da est è una delle prime stazioni di servizio storiche che si incontrano e poi perché, dal punto di vista estetico, è quella che mi piace di più.
Oggi, come detto, è un centro di informazioni turistiche ed il personale è sempre prodigo di consigli e di informazioni storiche sulla gas station e sulle zone limitrofe.
Ricordo nel 2014, durante il mio primo viaggio lungo la vecchia highway, il tanto tempo trascorso con i simpatici volontari davanti ad una cartina dell’Illinois alla ricerca di alcuni piccoli villaggi che avevo interesse a visitare.
Oppure a Maggio del 2017 quando iniziai il mio terzo viaggio lungo la Route 66 in concomitanza con il Red Carpet Corridor, un festival annuale che si tiene nei primi giorni di maggio in una parte dell’Illinois, una manifestazione che veste a festa la Route 66.
La strada era percorsa da colonne di auto d’epoca, da moto e da fiammanti Corvette (la macchina simbolo della Route 66) ed i monumenti della vecchia highway erano tornati splendenti come nei loro anni d’oro.
Anche la Ambler’s era ancora più bella.
Le auto d’epoca erano incolonnante davanti alla stazione di servizio in attesa di uno scatto con le vecchie pompe di benzina e con un volontario che indossava la tuta tipica dei “benzinai” storici.
Anche io ho approfittato per uno scatto.
La magia degli anni d’oro della Route 66 si era ripetuta in quegli attimi nei quali i riflettori si erano di nuovo accesi sulla vecchia highway.
Era il 6 maggio 2017, l’aria era fresca e c’era uno splendido sole che illuminava la vecchia stazione di servizio esaltandone i colori e rendendola attuale.
Ed il verde Illinois forniva la cornice perfetta.
Dwight e la Route 66 in quel periodo dell’anno mostrano un fascino irresistibile.
Come scriveva Michael Wallis:
“Nelle calde serate primaverili il poderoso ruggito di quegli anni gloriosi riappare prontamente.
E per un istante, la città e la sua highway non sembrano affatto vecchie.”
La Route 66 in quei giorni era più bella e giovane che mai.