“Arriverà prima o poi il giorno nel quale non ci sarà più bisogno di pubblicare questa guida e ciò accadrà quando noi, come razza, avremo parità di diritti e di privilegi negli Stati Uniti d’America”.
Victor Green
La Route 66 racconta un mondo colorato, fatto di spensieratezza, di speranza e di sogni.
La Route 66 racconta un’America che non c’è più.
Gran parte dei viaggiatori, nostalgici di quel periodo, la rimpiangono e, coloro che quel periodo non lo hanno vissuto, la sognano.
Ma la Route 66, come espressione di un particolare periodo storico degli Stati Uniti, racconta anche storie di ordinaria disperazione, di gente in fuga dalla miseria, di sofferenza e disuguaglianza.
E raccontare un’America che non c’è più, quindi, non sempre ha un’accezione positiva, perchè viaggiare lungo il percorso della Route 66 non sempre, e non per tutti, è stata un’esperienza per la quale provare nostalgia.
Non per tutti la US Highway 66 è stata la “Mother Road”.
La Route 66 è nata nella metà degli anni 20, un periodo nel quale non tutte le persone erano uguali e non tutte potevano godere degli stessi privilegi.
Un periodo in cui la distinzione tra bianchi e neri era netta, feroce e spesso sancita per legge.
Agli albori della Mother Road, in occasione del Bunion Derby del 1928, la famosa gara podistica organizzata per pubblicizzare la neonata US Hwy 66, gli atleti di colore furono spesso oggetto attacchi razziali durante la gara.
Con il passar degli anni, inoltre, gli afro americani, almeno i più facoltosi, cominciavano a potersi permettere un’automobile ed a provare, come tutti, il desiderio di viaggiare.
Ma le strade americane, e quindi anche US Highway 66, proponevano diversi ostacoli che gli afro americani non dovevano superare, pena l’umiliazione, l’arresto o anche peggio.
Molte gas stations non accettavano clienti di colore, stessa cosa per i ristoranti e per i motels e questo li costringeva a viaggiare con le automobili cariche di ogni cosa per essere autonomi.
Cibo, lenzuola e coperte erano spesso parte integrante del bagaglio da portarsi in viaggio.
L’ostilità nei confronti degli afro americani, a volte risaltava perfino dal nome di alcune delle attività che si incontravano lungo la strada: Kozy Kottage Kamp o Klean Kountry Kottages (entrambe lungo la Route 66), con le 3 K delle loro iniziali a suonare quasi come un avvertimento.
O cittadine come Edmond in Oklahoma che si pubblicizzavano come “Un bel posto dove vivere, 6.000 abitanti, nessun negro”.
Ed erano inoltre tante le “Sundown town” nell’America di quegli anni, cittadine dove vigeva il coprifuoco per le persone di colore.
Viaggiare in queste condizioni, per gli afro americani, era proibitivo.
Le piccole comunità erano spesso evitate per non incorrere in possibili problemi, ma anche nelle grandi città le difficoltà non mancavano.
Un giornale nel 1955 riportava che ad Albuquerque, in New Mexico, solo 6 motels su 100 accettavano viaggiatori di colore.
In 6 degli 8 stati attraversati dalla Route 66 vigeva la segregazione razziale per legge, anche se alla fine tutti ne seguivano le rigide regole.
In soccorso alla voglia di esplorare l’America da parte dei viaggiatori di colore arrivò un libro, una sorta di guida: “The Negro Motorist Green Book” o più semplicemente “The Green Book”
The Green Book era un manuale ideato e realizzato da un impiegato di colore delle poste di New York, Victor Green, e forniva indicazioni sugli esercizi commerciali che accettavano clienti afro americani.
Victor ebbe l’idea di realizzare questa guida rifacendosi ad un libro simile, molto popolare negli anni 30 presso le comunità ebraiche.
Era un modo per rendere il viaggio degli afro americani il meno pericoloso e più confortevole possibile.
La prima uscita risale al 1936 ed è stato ininterrottamente pubblicato fino alla metà degli anni 60 quando le leggi razziali, le cosiddette Jim Crow Laws, vennero abolite.
Inizialmente la guida si limitava a fornire indicazioni per la sola area di New York, ma successivamente Green estese le sue preziose informazioni al resto del paese.
La guida diventò presto un insostituibile supporto ai viaggiatori di colore nel loro percorso ad ostacoli rappresentato dalle strade americane; fu talmente popolare al punto che Victor abbandonò il suo lavoro di postino per dedicarsi totalmente al suo Green Book.
Il prezioso manuale era prevalentemente venduto nelle stazioni di servizio della Esso (una compagnia che non faceva distinzioni tra bianchi e neri, avendo tra il suo staff dirigenziale anche persone di colore) o attraverso il passaparola.
Ed attraverso il passaparola si alimentava l’elenco del Green Book.
Erano circa 300 le attività commerciali che accettavano clienti di colore lungo la Route 66, ed i resti di alcune di queste si possono ancora incrociare.
Dopo la guerra la guida conobbe la sua massima diffusione e furono molti i grandi marchi americani che iniziarono a farsi pubblicità nelle sue pagine.
Il libro è anche citato, nel titolo e nella storia, nell’omonimo film premio oscar 2019; un film splendido che da l’idea delle difficoltà che in quegli anni dovevano affrontare i viaggiatori afro americani.
Nella metà degli anni 60, con la promulgazione del “Civil Rights Act”, quel tempo vagheggiato da Victor Green era arrivato e la pubblicazione del “Negro Motorist Green Book” venne sospesa.
Anche se Victor, venuto a mancare nel 1960, non ha tuttavia potuto assistere a quell’importante cambiamento, se non nelle convinzioni radicate in una certa parte della popolazione, almeno nella legislazione americana.
Non è una bella storia romantica questa raccontata dalla Route 66, ma la discriminazione razziale non era esclusiva prerogativa degli stati attraversati dalla Mother Road, ma fu una piaga molto più ampia che ha caratterizzato per anni la storia degli Stati Uniti.
E forse non è ancora del tutto ovunque superata.
Come ha scritto Michael Wallis, il più illuminato cantore della Mother Road:
“La Route 66 è una strada piena di cicatrici, alcune di cui andare fieri, altre di cui vergognarsi”.